La forma di stato democratica continua a mantenere un ampio sostegno nel mondo. Anche all’interno di regimi (più o meno esplicitamente) autoritari esiste la convinzione che la tenuta del sistema debba essere necessariamente subordinata ad una qualche forma di legittimazione democratica, seppur di facciata. A questo fine, riti ed istituzioni tipici della democrazia vengono mantenuti, seppur dopo averne accuratamente svuotato e svilito il loro ruolo e significato originale.
Quello della democrazia è un sistema intrinsecamente fragile, che ha bisogno di costante cura e attenzione a più livelli per potersi mantenere. Gli ingranaggi che garantiscono il corretto funzionamento della macchina democratica, per loro stessa natura, hanno bisogno di costante manutenzione. Trascurare questo aspetto significa sottoporre la democrazia a pressioni sempre più logoranti se non, addirittura, condannarla. Il risultato, non sorprende, è l’attuale e dilagante crisi di fiducia, partecipazione e legittimità nel processo democratico.
La soluzione che ci offre Habermas (1996), risiede nell’adeguare il nostro attuale sistema di esercizio del potere al cosiddetto “doppio binario di legittimazione”, istituzionale e discorsivo. Secondo il filosofo e politologo tedesco, infatti, un’autorità può definirsi realmente legittima se, al rispetto delle regole, dei ruoli e delle procedure assegnati alle istituzioni governative dalla Costituzione, si accompagna un altro elemento altrettanto importante: un processo, libero e inclusivo, di formazione e discussione delle opinioni politiche da parte dei cittadini (Floridia, 2013). Occorre ritornare all’essenza stessa della democrazia, il demos, aumentando i canali di partecipazione e ascolto della cittadinanza.
La democrazia deliberativa
In questa prospettiva si inserisce la teoria della democrazia deliberativa, una forma particolare di democrazia partecipativa che pone il dialogo e lo scambio argomentativo informato trai cittadini a suo fondamento e come sua maggiore preoccupazione. Secondo questo modello la partecipazione non è pensata per essere un evento occasionale, isolato e sostanzialmente limitato all’esercizio del diritto di voto; quanto piuttosto un elemento ordinario e ricorrente all’interno dei processi decisionali. L’attenzione particolare alla qualità del processo argomentativo e alle sue fasi è ciò che rende tale la democrazia deliberativa e la contraddistingue: ai cittadini è chiesto di impegnarsi prendendo parte (anche per lunghi periodi) a delle discussioni su delle questioni di rilevanza pubblica, che precedono la decisione governativa, arricchendola e contribuendo a costruirla. Le istituzioni rappresentative ed amministrative non vengono sostituite nella gestione delle responsabilità loro affidate ma, piuttosto, riconoscendo nei cittadini un partner con cui condividere tali responsabilità, riacquisiscono quella legittimazione che avevano perduto agli occhi di molti (Allegretti, 2010).
Si è sviluppata nel tempo ormai una ampia letteratura circa gli effetti positivi che la deliberazione apporterebbe alla qualità della vita democratica di una comunità. Attraverso la deliberazione, aumenterebbe la tolleranza verso opinioni differenti dalle proprie (Gutmann e Thompson, 1996); le persone tenderebbero ad accantonare l’approccio conflittuale a favore di una modalità di gestire i conflitti più orientata al reciproco riconoscimento delle opinioni (Chambers, 1996); il capitale sociale di una comunità verrebbe potenziato (Fishkin, 1995; Putnam, 2000); la legittimazione dell’ordinamento democratico aumenterebbe, apprendendo le persone una maggiore consapevolezza dello stesso (Chambers, 1996; Gutmann e Thompson, 1996). Inoltre, un sistema democratico al cui interno operano strumenti deliberativi concorrerebbe alla costruzione di una sfera civile più consapevole e giudiziosa rispetto alle proprie preferenze, con evidenti benefici per la qualità del discorso pubblico (Floridia, 2013).
L’organizzazione di processi deliberativi pienamente inseriti all’interno del nostro ordinamento giuridico può produrre numerosi potenziali vantaggi, per i cittadini e per gli amministratori. L’indizione una tantum può creare un aumento della fiducia nell’azione delle istituzioni, in calo da anni, ma è la pratica regolare della deliberazione pubblica a fare la differenza. Questo è particolarmente vero se si tiene conto che, renderne ricorrente e normato il ricorso, significa innanzitutto spostarne la volontà di adozione dalla labile sfera della politica per affidarla a quella più certa e vincolante del diritto, annullando così anche la possibilità di strumentalizzazione a fini di consenso (Floridia, 2013).
Inoltre, questi eventi di ascolto e coinvolgimento della cittadinanza creano spazi per lo sviluppo di raccomandazioni ponderate, che sono di grande utilità per il lavoro dei policy maker in termini di informazione, ma anche (e soprattutto) in quanto a fiducia che il cittadino riporrà sulle scelte derivate dalla sua personale consultazione e riflessione: le persone sono più propense a fidarsi di una decisione se è stata influenzata da cittadini come loro rispetto a una presa esclusivamente a porte chiuse dall’amministrazione (OCSE, 2021). Prendere decisioni complesse con effetti sul lungo periodo (una prospettiva spesso poco attraente per i rappresentanti politici che devono rispondere a tempistiche elettorali dall’orizzonte più limitato nel tempo), risulterà infine più semplice se tali provvedimenti scaturiscono da una procedura istituzionalizzata di ascolto diretto delle persone che poi a quelle decisioni dovranno sottostare.
Un aspetto troppo spesso dato per scontato all’interno dei processi deliberativi è il fondamentale tema dell’inclusività dei partecipanti. La decisione in merito alla quantità e alla qualità degli attori reclutati risulta cruciale: scegliere “chi partecipa” o, meglio, “chi può partecipare”, comporta precisi effetti sul piano del buon esito del processo e della sua stessa legittimità (Lewanski, 2016). Se da un lato, indubbiamente, la partecipazione dei cittadini risulta imprescindibile per raggiungere l’uguaglianza politica, dall’altro tuttavia quest’ultima dipende meno dal numero dei partecipanti e più dalla rappresentatività di coloro che partecipano (Verba, 2003). Per poter garantire un’equa opportunità di partecipazione occorre agire perché il processo di reclutamento tenti di rompere il circolo vizioso della partecipazione politica tale per cui, quest’ultima, risulta ancora strettamente legata a quelle condizioni sociali ed economiche che creano disuguaglianze nella capacità di attivarsi delle persone. Il rischio – ed è una delle sfide più importanti che la teoria della democrazia deliberativa è chiamata ad affrontare – è che a partecipare siano in realtà soltanto coloro che sono già attivi e rappresentati all’interno dell’arena politica.
La composizione dei partecipanti ai processi deliberativi, va riconosciuto, risulterà sempre in qualche misura distorta a favore di cittadini tendenzialmente un po’ più anziani, scolarizzati, benestanti e interessati alla politica rispetto alla popolazione nel suo complesso (Isernia et al., 2013) ma, preso atto di ciò, è comunque possibile intervenire per mitigare su questo fronte: la modalità di reclutamento che tenta di ridurre questi rischi è quella del campionamento statistico. La selezione di campioni casuali, che tengano conto di criteri di inclusività e rappresentatività secondo indicatori socio-demografici (e non solo), è considerato l’approccio migliore ad assicurare un buon livello di eterogeneità dei partecipanti e approssimazione rispetto alla popolazione complessiva a cui si riferisce il processo deliberativo. Anche utilizzando il metodo del campionamento, tuttavia, non si può escludere del tutto una componente di autoselezione, derivanti dai tassi effettivi di non partecipazione, non prevedibili al momento del reclutamento.
Per poter garantire un’equa opportunità di partecipazione occorre agire perché il processo di reclutamento possa rompere il circolo vizioso della partecipazione politica tale per cui, quest’ultima, risulta ancora strettamente legata a quelle condizioni sociali ed economiche che creano disuguaglianze nella capacità di attivarsi delle persone. La fascia di popolazione che versa in situazioni di svantaggio, infatti, è anche quella che dimostra meno interesse nella politica. Verba (2003) sostiene che questo meccanismo si instauri poiché queste persone avrebbero ormai interiorizzato l’idea che solo chi detiene il potere economico possa influenzare quello politico: la mancanza di interesse sarebbe dunque da imputare alla loro convinzione di non poter in nessun modo influire sulle questioni pubbliche.
Per poter aumentare la propensione a partecipare, specialmente per i meno abbienti e più disillusi, occorre adoperarsi sul campo delle motivazioni che possono portare i cittadini, altrimenti inattivi, a mobilitarsi. Due possibili modalità d’intervento sono da ricercare tanto negli incentivi più “materiali”, come un compenso per l’impegno speso nel processo, quanto in quelli “intangibili”, come sicuramente la percezione di avere effettivamente la possibilità di produrre un cambiamento su una data situazione (Lewanski, 2016). Una corretta deliberazione, infatti, non può prescindere dal rispetto della regola per cui l’oggetto del dibattito non deve in nessun caso riguardare decisioni sostanzialmente già prese dall’amministrazione che propone il processo. Un alto livello di inclusività, informazione e trasparenza, congiuntamente a una certezza di accountability politica nei confronti della pubblica amministrazione, rappresentano altri elementi essenziali per l’adeguatezza di una deliberazione, nonché un ulteriore motore alla partecipazione. Un processo che mancasse di questi criteri fondamentali sarebbe privo dell’elemento stesso della democraticità e, di conseguenza ci troveremo davanti a una “pseudo-deliberazione” (Floridia, 2013).
Appare in questo senso esemplificativa la lettura dell’articolo 15 della l.r. 69/2007 della Regione Toscana – prima esperienza in Italia di una regolazione normativa del ricorso a strumenti partecipativi e deliberativi – che racchiude al suo interno i canoni che un processo di questo tipo è chiamato tassativamente a rispettare:
Art. 15 c.1 lett. a: l’oggetto del processo partecipativo è definito in modo preciso;
Art. 15 c.1 lett. f: inclusività delle procedure, con particolare attenzione alle condizioni che assicurano la piena parità di espressione di tutti i punti di vista e di eguaglianza nell’accesso ai luoghi e ai momenti di dibattito;
Art. 15 c.1 lett. g: inclusione di gruppi sociali o culturali diversi;
Art. 15 c.1 lett. h: azioni specifiche per diffondere il massimo delle informazioni anche tecniche tra tutti i cittadini sia prima dell’inizio del processo partecipativo, sia durante e sia dopo;
Art. 15 c.4 lett. a: dichiarazione con cui l’ente si impegna a tenere conto dei risultati dei processi partecipativi o comunque a motivarne il mancato o parziale accoglimento;
Art. 15 c.4 lett. c: accessibilità di tutta la documentazione rilevante per il processo partecipativo.
La critica principale alla democrazia deliberativa
La critica principale a cui va incontro la teoria della democrazia deliberativa, e a cui si allinea una parte non trascurabile dei pensatori politici contemporanei, è quella esposta nell’opera “Stealth Democracy” di Hibbing e Theiss-Morse (2002). A fondamento dell’idea degli autori è da considerarsi l’assunto secondo cui la maggioranza dei cittadini non abbia né la capacità né l’intenzione di partecipare alla costruzione delle scelte di rilevanza pubblica e, salvo casi di particolare crisi e corruzione della classe politica, preferirebbe disinteressarsi alle questioni politiche affidandone l’intero processo di costruzione, decisione e gestione ai loro rappresentanti eletti. Pensare di coinvolgere maggiormente i cittadini sarebbe quindi ingenuo ed impraticabile, per il semplice motivo che questi non vogliono farlo. Gli autori sostengono che la percezione di un aumento della richiesta di partecipazione sia in realtà condizionata dal tasso di fiducia che le persone ripongono nell’integrità del sistema politico: se i governanti fossero più virtuosi, i governati sarebbero ben lieti di non partecipare. Il disinteresse e la repulsione dei cittadini verso la politica, con tutto ciò che ne consegue, appaiono quindi come qualcosa di inevitabile che andrebbe semplicemente accettato. Sarebbe addirittura dannoso e paternalistico, cercare di intervenire con strumenti partecipativi e deliberativi.
Tale idea restrittiva di democrazia, tuttavia, pone a sua giustificazione l’esistenza di tre condizioni: non esistono asimmetrie tra gli elettori, i quali sono tutti egualmente attivi ed informati; i cittadini comuni non vogliono e non sono in grado di discutere argomenti di importante rilevanza pubblica; il voto è la modalità fondamentale (se non unica) che la cittadinanza possiede per potersi attivare politicamente (Verba, 2003).
Per quanto riguarda quest’ultima condizione, gli studiosi sono ormai concordi nell’affermare che il recarsi alle urne non deve essere considerato l’unico spazio politico a cui la popolazione può partecipare (Putnam, 1993; Diamond e Morlino, 2005). A proposito delle prime due invece, la letteratura sulla partecipazione politica ha più volte dimostrato come in realtà i cittadini siano effettivamente in grado, se posti nelle giuste condizioni, di dibattere di questioni pubbliche anche complesse (Delli Carpini et al, 2004); che sono proprio le categorie meno attive nei canali politici tradizionali – giovani, minoranze etniche e persone a basso reddito – a mostrare più entusiasmo verso i processi deliberativi (Neblo, 2010); e che, prendendo parte a questi eventi, gli individui siano più portati a diventare attivi ed impegnati politicamente (Gamson, 1992).
Ciò su cui i futuri studi sulla democrazia deliberativa dovranno concentrarsi e cercare delle risposte è l’apparente grande difficoltà nel riuscire a coinvolgere le fasce di popolazione solitamente escluse dal dibattito pubblico. Nonostante l’applicazione sempre più frequente e standardizzata dei fondamentali meccanismi correttivi in fase di reclutamento, riuscire a portare più cittadini possibile a partecipare rimane la sfida maggiore per i sostenitori della teoria deliberativa: il rischio è quello di “predicare ai convertiti”, riproponendo così le dinamiche distorsive della democrazia rappresentativa che ci si proponeva di mitigare.
Pratiche deliberative: perché sì
Questo significa che dovremmo scartare l’ipotesi di implementare degli strumenti deliberativi e, quindi, accettare l’assunto della stealth democracy per cui i cittadini semplicemente non desiderano partecipare? Io non credo. Ritengo piuttosto che le persone, e in particolare quelle tradizionalmente in una situazione di svantaggio, deluse e scoraggiate dalle derive intraprese negli ultimi decenni dal nostro sistema politico democratico, abbiano ormai interiorizzato l’idea di non poter esercitare nessuna influenza e che solo chi detiene il potere economico possa realmente farlo (Verba, 2003). Di fronte a tale situazione, la strada da percorrere è quella che tenti, ostinatamente, di risvegliare la fiducia nei cittadini di potersi autodeterminare. Agire in questo senso deve essere un imperativo per una società che si definisca democratica: la capacità della democrazia di resistere alle sollecitazioni che la minacciano dall’interno risiede esclusivamente nella qualità della partecipazione dei suoi cittadini.
Soltanto una cittadinanza responsabile e consapevole dei suoi doveri nei confronti della comunità può dare inizio ad una nuova stagione di rinnovamento democratico, da cui le istituzioni rappresentative non potranno che trarre giovamento. Una delle esigenze inderogabili della democrazia è proprio quella di migliorare le capacità dei cittadini di partecipare ed impegnarsi nelle sfide della politica. Occorre tornare a mettere il cittadino al centro del nostro progetto di società, tornare a sentirci parte di un organismo collettivo, che rappresenti gli interessi di tutti i suoi componenti e al quale tutti contribuiamo.
Il modo migliore per compensare questi squilibri appare proprio, ancora una volta, la via dell’istituzionalizzazione (Floridia, 2013; Lewanski, 2016). Rendere le pratiche di consultazione e deliberazione una prassi ricorrente, non può che essere la carta vincente per riavvicinare i cittadini al processo democratico: dapprima, certamente, soprattutto i “soliti noti” (Bobbio, 2006), ma sul lungo periodo anche i disaffezionati.
Riccardo Spallina
Socio ordinario di Prossima Democrazia
Bibliografia:
- Allegretti, Umberto, ed. Democrazia partecipativa: esperienze e prospettive in Italia e in Europa. Studi e saggi 88. Firenze: Firenze University Press, 2010.
- Bobbio L., 2006. Dilemmi della democrazia partecipativa, in Democrazia e diritto, n. 4, pp. 11-25.
- Chambers S. 1996. Reasonable Democracy. Ithaca, NY: Cornell Univ.
- Delli Carpini, M. X., Fay Lomax Cook, and Lawrence R. Jacobs. 2004. ‘PUBLIC DELIBERATION, DISCURSIVE PARTICIPATION, AND CITIZEN ENGAGEMENT: A Review of the Empirical Literature’. Annual Review of Political Science 7 (1): 315–44.
- Diamond L., Morlino L. (eds.) (2005), Assessing the Quality of Democracy, The Johns Hopkins University Press, Baltimore (MD).
- Fishkin J. 1995. The Voice of the People. New Haven, CT: Yale Univ.
- Floridia, Antonio. 2013. La Democrazia Deliberativa: Teorie, Processi e Sistemi. 1a ed. Biblioteca Di Testi e Studi 785. Roma: Carocci.
- Gamson W. 1992. Talking Politics. New York: Cambridge Univ.
- Gutmann A, Thompson D. 1996. Democracy and Disagreement. Cambridge, MA: Harvard Univ. Press.
- Habermas, Jürgen (1996) Between Facts and Norms: Contributions to a discourse theory of law and democracy. Cambridge, MA: MIT Press.
- Hibbing JR, Theiss-Morse E. 2002. Stealth Democracy: Americans’ Beliefs About How Government Should Work. Cambridge, UK: Cambridge Univ. Press
- Isernia P., Fishkin J., Steiner J., Di Mauro D., 2013. Towards a European Public Sphere – The EuroPolis Project, in Kies R. e Nanz P., Is Europe Listening to Us? Successes and Failures of EU Citizens Consultations, Farnham (UK): Ashagate, pp. 79-124.
- Lewanski, R. (2016) La prossima democrazia. Dialogo, deliberazione, decisione.
- Neblo, Michael A., Kevin M. Esterling, Ryan P. Kennedy, David M.J. Lazer, and Anand E. Sokhey. 2010. ‘Who Wants To Deliberate—And Why?’ American Political Science Review 104 (3): 566–83.
- OCSE (2021), “Eight ways to institutionalise deliberative democracy”, OECD Public Governance Policy Papers, No. 12, OECD Publishing, Paris.
- Putnam, Robert D., Robert Leonardi, and Raffaella Nanetti. 1993. Making Democracy Work: Civic Traditions in Modern Italy. Princeton: Princeton Univ. Press.
- Verba, Sidney. 2003. ‘Would the Dream of Political Equality Turn out to Be a Nightmare?’ Perspectives on Politics 1 (4): 663–79.
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